Autore: Luca Di Giorgi

Promuovere liti temerarie può integrare il delitto di estorsione?

Cassazione Penale, Sez. II, Sentenza n. 25432/2024.
 

Con la presente sentenza, la Corte di Cassazione si è pronunciata sul ricorso presentato dal Pubblico Ministero avverso l’ordinanza del Tribunale del Riesame, con la quale veniva annullata l’ordinanza del Giudice per le Indagini Preliminari applicativa – nei confronti di due indagati – della misura cautelare personale del divieto di dimora.

I fatti possono essere brevemente riassunti come segue.

I due soggetti venivano indagati per il delitto di tentata estorsione in concorso, avendo gli stessi ceduto a un coimputato presunti crediti relativi a danni (asseritamente) patiti nell’ambito di una procedura di esecuzione immobiliare a loro carico. Quest’ultimo, unitamente al difensore, aveva promosso sette giudizi civili dinanzi al Giudice civile competente per ottenere il risarcimento dei danni derivanti dalle lamentate condotte di ingiuria e diffamazione consumate nel corso della procedura di esecuzione immobiliare. Altri soggetti poi, d’intesa con gli indagati, chiedevano ai convenuti, persone offese, somme da pagare in via stragiudiziale a titolo di “risarcimento del danno”.

Secondo il Tribunale del riesame non vi erano tuttavia elementi per ritenere integrata la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico degli indagati per il delitto di tentata estorsione, sul presupposto che gli stessi avessero adito le vie legali e la mediazione dell’Autorità giudiziaria, alla quale avevano rimesso la valutazione in ordine alla legittimità delle loro pretese, circostanza questa che – secondo l’interpretazione del Tribunale – escludeva la sussistenza di un profitto ingiusto, elemento costitutivo del reato contestato.     

Sul tema oggetto di ricorso, la Corte di Cassazione riafferma, in primo luogo, il principio secondo il quale integra gli estremi del delitto di estorsione la minaccia di prospettare azioni giudiziarie al fine di ottenere somme di denaro non dovute o manifestamente sproporzionate rispetto a quelle dovute, qualora l’agente ne sia consapevole, potendosi individuare il male ingiusto prospettato nella pretestuosità della richiesta (Sez. 2, n. 19680 del 12/4/2022, Silvani, Rv. 283199 – 02; Sez. 6, n. 47895 del 19/6/2014, Vasta, Rv. 261217 – 01; Sez. 2, n. 48733 del 29/11/2012, Parvez, Rv. 253844 – 01).

La minaccia di adire le vie legali difatti, pur avendo un’esteriore apparenza di legalità, può integrare l’elemento costitutivo del delitto di cui all’art 629 c.p. quando sia formulata non con l’intenzione di esercitare un diritto, bensì con lo scopo di coartare l’altrui volontà e conseguire risultati non conformi a giustizia (il principio è stato espresso in un caso in cui gli imputati avevano evocato vicende “inconfessabili” che sarebbero emerse nel corso di un instaurando processo civile, reclamando la corresponsione di un compenso non dovuto in cambio della mancata instaurazione di esso: Sez. 2, n. 36365 del 07/05/2013, Braccini, Rv. 256874 – 01).

In secondo luogo, la Corte precisa come l’intervento del giudice, investito della cognizione in ordine alla legittimità della pretesa in sede giudiziale, impedisce che si possa ipotizzare la sussistenza sia della costrizione illecita, che del profitto ingiusto dell’attore, da ciò derivandone la non possibilità di ritenere integrata l’estorsione (Sez. 2, n. 50652 del 10/11/2023, Manfredi, n.m.).

Fatte queste premesse, la Corte ha ritenuto che il delitto di estorsione possa configurarsi se la promozione di azioni giudiziarie costituisce lo strumento utilizzato per costringere il convenuto ad accettare accordi “stragiudiziali” palesemente ingiusti, che non sarebbero mai stati considerati se lo stesso non fosse stato costretto a resistere in più giudizi attivati in modo temerario con l’unico scopo di fiaccarne le resistenze economiche e morali, e dunque di costringerlo a consegnare somme a titolo formalmente “transattivo”, ma invero privo di qualsivoglia giustificazione e dunque appalesandosi come ingiusto.

Offesa recata a mezzo di una chat di gruppo whatsapp o di altri moderni sistemi di comunicazione: diffamazione o ingiuria?

Il concetto di “presenza” rispetto ai moderni sistemi di comunicazione – tematica questa di stretta attualità – è stato di recente affrontato dalla Corte di Cassazione.

La Quinta Sezione Penale, con la sentenza n. 28675/2022, richiamando la nozione di presenza virtuale già espressa nella sentenza Viviano (Cass. pen., Sez. V, Sent. n. 13252/2021), ha ribadito – quale dato di comune esperienza – come sulla chat di gruppo whatsapp i destinatari dei messaggi possono leggerli in tempo reale (perché stanno consultando quella specifica chat), rispondendo nell’immediatezza, ovvero possono leggerli, anche a distanza di tempo, quando non sono on line o ancora, pur essendo collegati a whatsapp, si trovino impegnati in altra conversazione virtuale e non consultino immediatamente la chat nell’ambito della quale il messaggio è stato inviato.

Ciò chiarito, se ne può ricavare che la percezione da parte del destinatario dell’offesa potrà essere contestuale o differita, a seconda che quest’ultimo stia consultando o meno proprio quella specifica chat di whatsapp.

Nel primo caso vi sarà ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, dovendosi la persona offesa ritenere virtualmente presente; nel secondo caso si avrà invece diffamazione, in quanto la vittima dovrà essere considerata assente.

Laddove dunque – sulla base delle risultanze probatorie – il destinatario dell’offesa debba considerarsi soggetto presente nell’ambito della conversazione intrattenuta nella stanza virtuale di whatsapp, avendo lo stesso appreso nell’immediatezza il contenuto del messaggio a lui rivolto, potrà configurarsi (in astratto) una condotta meramente ingiuriosa, la cui rilevanza penale è venuta meno a seguito dell’entrata in vigore del D.lgs. 15.1.2016, n. 7 (recante «Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma terzo, della Legge 28 aprile 2014, n. 67»), in forza del quale sono state abrogate una serie di fattispecie di reato, tra cui l’ingiuria (art. 594 c.p.), con trasformazione delle stesse in illeciti civili sottoposti a sanzioni pecuniarie.

Con riferimento invece alle offese veicolate tramite il social network Facebook, la Suprema Corte ha ribadito come la natura – pacificamente pubblica – della “bacheca Facebook” ove le frasi offensive siano pubblicate permette di qualificare il fatto in termini di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, terzo comma, c.p., poiché tale modalità di comunicazione ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, non contestualmente presenti. (Cass. pen., Sez. V, 12/01/2023, n. 3453)

Quanto invece alle offese veicolate a mezzo del provider di posta elettronica, l’invio di una comunicazione offensiva tramite e-mail a più destinatari integrerà il delitto di diffamazione (e non anche la depenalizzata ipotesi di ingiuria) a prescindere dalla presenza o meno della vittima tra i destinatari della comunicazione. (Cass. pen., Sez. V, 14/04/2023, n. 22631)

Parimenti, in caso di invio di una e-mail a un solo destinatario, il requisito della comunicazione con più persone risulterà integrato quando l’accesso alla casella di posta elettronica sia consentito almeno ad un altro soggetto e ciò sia noto al mittente (o quantomeno prevedibile secondo l’ordinaria diligenza), nonché quando la comunicazione inviata via e-mail risulti prevedibilmente – con giudizio da operarsi ex ante rispetto alla ricezione – diffusa o comunque posta a conoscenza di almeno un altro soggetto. (Cass. pen., Sez. V, 25/01/2022, n. 12186).

Lockdown e “zona rossa”: illegittimità dei DPCM e conseguente irrilevanza penale della condotta di falso ideologico commessa dal privato nell’autocertificazione.

G.I.P. presso il Tribunale di Reggio Emilia, Sentenza n. 54 del 27.01.2021.

 

Con la presente sentenza, il Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Reggio Emilia – decidendo sulla richiesta di emissione del decreto penale di condanna avanzata dal Pubblico Ministero – ha prosciolto ex art. 129 c.p.p., perché il fatto non costituisce reato, i due imputati chiamati a rispondere del delitto di cui all’art. 483 c.p. (falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico) «…perché, compilando atto formale di autocertificazione per dare contezza del loro essere al di fuori dell’abitazione in contrasto con l’obbligo imposto dal DCPM 08.03.2020, attestavano falsamente ai Carabinieri di Correggio: TIZIA di essere andata a sottoporsi ad esami clinici; CAIO di averla accompagnata…», avendo il Giudice disapplicato – ai sensi dell’art. 5 della Legge n. 2248/1865 all. E – il DPCM 8 marzo 2020 in quanto ritenuto costituzionalmente illegittimo.

Secondo il Giudice, il DPCM del 8.3.2020 (così come i provvedimenti successivi emanati dal Capo del Governo) evocato nell’autocertificazione sottoscritta da ciascun imputato, è «indiscutibilmente» illegittimo laddove prevede che “1. Allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus COVID-19 le misure di cui all’art. 1 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 8 marzo 2020 sono estese all’intero territorio nazionale“, e del rinviato DPCM dei 8.3.2020, ove stabilisce che “Allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus COVID-19 nella regione Lombardia e nelle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell’Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso e Venezia, sono adottate le seguenti misure: a) evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo, nonché all’interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute.

La previsione di un divieto generale e assoluto di spostamento al di fuori della propria abitazione, con limitate e specifiche eccezioni, configura di fatto un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare, obbligo che nel nostro ordinamento può essere imposto soltanto da un provvedimento del Giudice o in via cautelare (applicazione di misure cautelari) o definitiva (sentenza di condanna a pena detentiva), nel rispetto dei limiti previsti dalla legge e garantendo il diritto di difesa.

A tal proposito, si è evidenziato come la Corte costituzionale abbia ritenuto configurante una restrizione della libertà personale in situazioni ben più lievi dell’obbligo di permanenza domiciliare: ad esempio in tema di “prelievo ematico” (Sentenza n. 238 del 1996) ovvero di obbligo di presentazione presso l’Autorità di PG in concomitanza con lo svolgimento delle manifestazioni sportive, in caso di applicazione del DASPO, tanto da richiedere una convalida del Giudice in termini ristrettissimi. Parimenti, per la disciplina sul trattamento sanitario obbligatorio (TSO), poiché impattante sulla libertà personale, deve essere garantito un controllo giurisdizionale tempestivo in ordine ai presupposti applicativi tassativamente previsti dalla legge.

L’art. 13 Cost. stabilisce infatti che le misure restrittive della libertà personale possono essere adottate unicamente con «…atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge».

Sulla scorta di tale principio costituzionale si ricava in primo luogo che un DPCM non possa disporre alcuna limitazione della libertà personale, trattandosi di fonte regolamentare di rango secondario e non già di un atto normativo avente forza di legge; in secondo luogo, neppure una legge (o un atto normativo avente forza di legge) potrebbe prevedere in via generale e astratta un obbligo di permanenza domiciliare nei confronti di una pluralità indeterminata di cittadini, atteso che l’art. 13 Cost. postula una doppia riserva, di legge e di giurisdizione, implicando necessariamente l’emissione di un provvedimento individuale (diretto quindi nei confronti di uno specifico soggetto) da parte del Giudice, nel rispetto dei limiti imposti dalla legge.

Il Giudice chiarisce infine come non possa essere condivisa l’impostazione di chi sostiene la conformità al dettato costituzionale dell’obbligo di permanenza domiciliare in ragione del fatto che il DPCM avrebbe previsto legittime limitazioni della libertà di circolazione ex art. 16 Cost. e non della libertà personale. Secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, la libertà di circolazione non può essere confusa con la libertà personale: i limiti della libertà di circolazione attengono a luoghi specifici, il cui accesso può essere precluso, perché ad esempio pericolosi; quando invece il divieto di spostamento non riguarda i luoghi, ma le persone, allora la limitazione si configura come una vera e propria limitazione della libertà personale.

Sulla scorta di tali argomentazioni è stata pertanto dichiarata la illegittimità del DPCM indicato per violazione dell’art. 13 Cost., con conseguente dovere del Giudice ordinario di disapplicarlo ai sensi dell’art. 5 della Legge n. 2248/1865 all. E.

Dalla disapplicazione del provvedimento normativo deriva l’irrilevanza penale della condotta di falso ideologico commessa dal privato nell’autocertificazione (quest’ultima incompatibile con lo stato di diritto del nostro Paese e dunque illegittima), condotta per l’appunto integrativa di un falso inutile (rectius: innocuo), incidendo la falsità su un documento irrilevante o comunque non influente ai fini della decisione da emettere in relazione alla situazione giuridica che viene in questione.

Ordinanza di rigetto della richiesta di incidente probatorio intervenuta successivamente alla sua ammissione: atto abnorme da parte del Giudice per le Indagini Preliminari?

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Cassazione Penale, Sez. IV, Sentenza n. 3982/2021.

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Con la presente sentenza, la Corte di Cassazione si è pronunciata sul ricorso presentato dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Emilia avverso un’ordinanza del Giudice per le Indagini Preliminari, con la quale veniva rigettata – a seguito della relazione peritale – la richiesta di incidente probatorio (per cui era già stato adottato provvedimento ammissivo) avanzata dalla difesa dell’indagato a seguito di riserva formulata ex art. 360, comma quarto, c.p.p., chiarendo se il provvedimento de quo possa considerarsi abnorme.

Va premesso che l’accertamento tecnico irripetibile promosso dal Pubblico Ministero (avverso il quale la difesa dell’indagato formulava riserva di promuovere incidente probatorio) consisteva nell’esame autoptico di diverse salme – previa estumulazione – in relazione a decessi intervenuti in un determinato arco temporale. Ammesso l’incidente probatorio, il Giudice formulava un quesito al perito volto a comprendere se – tenendo conto del tempo trascorso dalla sepoltura – l’accertamento autoptico consentisse di rilevare l’eventuale esistenza all’epoca del decesso del virus SARS CoV2 o della malattia Covid-19, fornendo a tal proposito indicazioni medico-legali ulteriori e univocamente interpretabili sotto il profilo tecnico-scientifico rispetto a quanto già emergente dalle cartelle cliniche. In risposta al quesito formulato, il perito affermava di non poter fornire un parere preciso in merito alla possibilità di ottenere dall’esame autoptico un risultato utile, sia per la mancanza di una legge scientifica di copertura in merito a indagini su cadaveri decorsi mesi dalla loro inumazione, sia per la non esatta conoscenza di una serie di dati fattuali, come lo stato di decomposizione, l’ambiente di sepoltura, la profondità dell’inumazione, la temperatura, l’umidità, gli effetti climatici delle stagioni trascorse.

Sulla base di queste considerazioni, il Giudice – tenuto conto dei rischi per la salute degli operatori e per la collettività legati alla estumulazione, del costo considerevole di tali operazioni e del rischio di prolungare i tempi di indagine attraverso atti non idonei a fornire elementi sufficienti per sostenere l’accusa in giudizio – valutava che l’estumulazione dei corpi (finalizzata all’esame autoptico) non avrebbe condotto ad alcun tipo di risultato utile.
Con l’ulteriore precisazione che l’accertamento richiesto non avrebbe consentito di ottenere risultanze probatorie sufficienti in ordine alla responsabilità penale degli indagati, sia per il difficoltoso accertamento della riferibilità causale dell’evento morte delle persone offese all’infezione da Covid-19, secondo una legge scientifica di copertura avente natura universale o solo probabilistica in senso statistico, sia per la difficoltà di sostenere che l’infezione fosse da attribuire sotto un profilo soggettivo alla condotta degli indagati, considerata la condizione di emergenza in cui versava il sistema sanitario nazionale a fronte dell’emergenza pandemica.

Nel suo ricorso il Procuratore della Repubblica ha sostenuto che l’ordinanza impugnata fosse affetta da abnormità, sia sotto il profilo strutturale che funzionale. Sotto il profilo strutturale perché il Giudice avrebbe emesso un provvedimento eccentrico rispetto a quelli previsti, dapprima ammendo l’incidente probatorio e successivamente rigettando la medesima richiesta, anziché procedere con la revoca dell’ordinanza precedentemente emessa. Sotto il profilo funzionale perché il Giudice – nonostante avesse esercitato un potere astrattamente previsto dalla disciplina processuale – anziché valutare se la richiesta di incidente probatorio rientrasse o meno in uno dei casi di cui all’art. 392 c.p.p., o secondo i criteri di cui all’art. 190 c.p.p., per l’ammissione delle prove, aveva preso in esame il bilanciamento dei valori in gioco, l’utilità e concludenza della prova rispetto all’accertamento della responsabilità penale degli indagati. Ciò avrebbe portato a un’anticipazione del giudizio sulla valutazione della prova che – a parere del ricorrente – andrebbe espresso solo dopo il suo esperimento. Preliminarmente, la Corte ha ribadito – conformemente al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità – quella che è la nozione di provvedimento “abnorme”, ossia di quel provvedimento che – pur a fronte delle regole generali della tipicità e tassatività dei casi di nullità (art. 177 c.p.p.) e dei mezzi di impugnazione (art. 568 c.p.p., comma 1) – risulti affetto da vizi in procedendo o in iudicando così singolari da risultare imprevedibili per il legislatore, il quale non li ha potuti regolamentare. L’abnormità dell’atto processuale può riguardare tanto il profilo strutturale, laddove l’atto si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale, quanto il profilo funzionale, laddove esso, pur non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo (Sez. U, n. 26 del 24/11/1999, dep. 2000, Magnani, Rv. 21509401).

Ciò premesso, la Corte – nel dichiarare inammissibile il ricorso – ha ritenuto che l’ordinanza impugnata non presentasse profili di abnormità, evidenziando innanzitutto come l’art. 398, comma primo, c.p.p., preveda unicamente che la richiesta di incidente probatorio possa essere accolta, dichiarata inammissibile o rigettata dal Giudice, senza nulla aggiungere in ordine alla impugnabilità del provvedimento; impugnabilità che deve essere pertanto esclusa nel rispetto del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione.

Con riguardo alla dedotta abnormità strutturale, ai sensi del combinato disposto dell’art. 398, comma primo, c.p.p., art. 401, comma quarto, c.p.p., art. 190, comma primo, c.p.p., e art. 495, comma quarto, c.p.p., al Giudice per le Indagini Preliminari non è consentito adottare nuovi provvedimenti su questioni relative all’ammissibilità e alla fondatezza della richiesta di incidente probatorio, ma è consentito, dopo aver emesso il provvedimento di ammissibilità, acquisire elementi utili al giudizio che inerisce alla fondatezza con specifico riguardo al profilo concernente l’utilità e la rilevanza della prova. L’atto impugnato non è dunque estraneo al sistema processuale, trattandosi di un atto pienamente conforme al modello generale di decisione che il Giudice per le Indagini Preliminari può adottare nell’esercizio del suo potere discrezionale di valutazione dell’utilità della prova (Sez. 6, n. 24996 del 15/07/2020, P., Rv. 27960401).

Con riguardo invece alla dedotta abnormità funzionale, non sarebbe ravvisabile alcuna stasi del procedimento, ben potendo il Pubblico Ministero – al quale vengono restituiti gli atti a seguito del rigetto dell’istanza di incidente probatorio – proseguire regolarmente con l’attività di indagine. Secondo la Corte, il procedimento che consente alla difesa – ex art. 360, comma quarto, c.p.p. – di convogliare nell’incidente probatorio un accertamento tecnico irripetibile (ma differibile) ha infatti anche la funzione di sottoporre al vaglio anticipato del Giudice il giudizio circa l’utilità e la concludenza della prova cui tende l’atto d’indagine.

Sulla validità della querela presentata da soggetto non legittimato, successivamente ratificata dal titolare del diritto: Cassazione Penale, Sez. II, Sentenza n. 35023/2020.

Con la presente pronuncia, la Corte di Cassazione – decidendo sul ricorso presentato dal sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Messina avverso la sentenza con cui il Giudice di Pace aveva dichiarato il non doversi procedere nei confronti di un imputato per difetto della condizione di procedibilità, avendo ritenuto invalido l’atto di querela presentato da un soggetto non legittimato, sebbene poi ratificato tempestivamente dal titolare del diritto di querela – ha (ri)affrontato il tema della efficacia della querela oggetto di successiva (e tempestiva) ratifica da parte del titolare del diritto.

Richiamando infatti un orientamento risalente (ma consolidato) della giurisprudenza di legittimità (Sez. 6, n. 1203 del 14/10/1980, Rv. 147652; Sez. 2, n. 9711 del 03/03/1978, Rv. 139740), la Corte ha ribadito come la querela – tempestivamente e ritualmente presentata da soggetto non legittimato nell’interesse del soggetto legittimato – ha piena efficacia se successivamente sia intervenuta la ratifica da parte del titolare del diritto, che opera ex tunc.

Principio quest’ultimo che ha trovato conferma anche di recente in una pronuncia della Cassazione (Cass. Pen., Sez. IV, Sent. n. 4937/2010), investita della problematica legata alla validità di un atto di querela che invece di esporre le ragioni a fondamento dell’atto ed esprimere un’autonoma volontà punitiva nei confronti del querelato, si limitava a richiamare altro atto contenente le predette informazioni e manifestazioni di volontà, tuttavia invalido perché presentato da persona non legittimata.

Deve escludersi infatti che le modalità di presentazione della querela siano sottoposte a rigide formalità: in applicazione di detto principio, sono state ritenute valide querele presentate alla polizia giudiziaria, prive di sottoscrizione, purché successivamente ratificate (Sez. 5, n. 17681 del 13/01/2010, Rv. 247221; Sez. 6, n. 4897 del 24/10/2003, dep. 2004, Rv. 227915; Sez. 7, n. 31646 del 28/05/2002, Rv. 222839); parimenti si è ritenuto che la ratifica come querela di una precedente denunzia sia sufficiente per configurare l’atto come querela non essendo necessario, a tal fine, l’uso di formule sacramentali (Sez. 3, n. 2629 del 06/10/1981, Rv. 152696).

E ciò in quanto la ratifica di un atto precedente implica necessariamente il recepimento integrale del suo contenuto e delle manifestazioni di volontà in esso espresse, con la conseguenza che, attraverso la ratifica, il soggetto ratificante esprime – anche nel caso in cui l’atto ratificato provenga da un terzo – la volontà di farlo proprio e di confermare quanto in esso contenuto; a nulla rilevando il fatto che l’atto ratificato sia invalido, in quanto il suo recepimento riguarda il contenuto e non anche i requisiti di validità sostanziale e formale, che dovranno essere valutati in relazione al sopravvenuto atto di ratifica.

Sulla configurabilità della condotta di peculato commessa dall’albergatore alla luce del c.d. Decreto rilancio: Cassazione Penale, Sez. VI, Sentenza n. 30227/2020.

Con la presente pronuncia, la Corte di Cassazione ha affrontato la problematica della successione nel tempo di norme extrapenali, relativamente alla modifica della disciplina del versamento dell’imposta di soggiorno da parte dei gestori delle strutture alberghiere e ricettive operata dall’art. 180, Decreto-legge n. 34 del 19 maggio 2020 (convertito nella L. n. 77 del 20 luglio 2020: c.d. Decreto rilancio), concludendo nel ritenere persistente la punibilità a titolo di peculato delle condotte appropriative poste in essere dall’albergatore prima dell’entrata in vigore del Decreto rilancio (19.05.2020).

Con l’art. 180 è stato infatti previsto l’inserimento del comma 1-ter all’interno dell’articolo 4, D.Lgs 14 marzo 2011 n. 23, con il quale si prevede che “il gestore della struttura ricettiva è responsabile del pagamento dell’imposta di soggiorno di cui al comma 1 e del contributo di soggiorno di cui all’art. 14, comma 16, lett. e) d.l. 31 maggio 2010 n. 78 conv. con modif. nella I. 30 luglio 2010 n. 122 con diritto di rivalsa sui soggetti passivi, della presentazione della dichiarazione, nonché degli ulteriori adempimenti previsti dalla legge e dal regolamento comunale. La dichiarazione deve essere presentata cumulativamente ed esclusivamente in via telematica entro il 30 giugno dell’anno successivo a quello in cui si è verificato il presupposto impositivo, secondo le modalità approvate con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato – città ed autonomie locali, da emanare entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento. Per l’omessa o infedele presentazione della dichiarazione da parte del responsabile si applica la sanzione amministrativa dal 100 al 200 per cento dell’importo dovuto. Per l’omesso, ritardato o parziale versamento dell’imposta di soggiorno e del contributo di soggiorno si applica una sanzione amministrativa di cui all’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471“.

Ai sensi della novella il gestore della struttura viene individuato (dall’entrata in vigore e quindi per il futuro) quale soggetto responsabile del pagamento dell’imposta (figura prevista e definita dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 64) di soggiorno e sottoposto alle sanzioni amministrative derivanti dal mancato versamento della stessa.

Con la modifica normativa viene pertanto esclusa in radice la configurabilità del delitto di peculato: il gestore della struttura ricettiva – non operando più come ausiliario dell’ente locale nella riscossione del tributo (il quale maneggiando pubblico denaro, fungeva da agente contabile con obbligo di rendiconto) – si sveste della qualifica di incaricato di pubblico servizio, con la conseguenza che il mancato versamento dell’imposta non sarà più sussumibile nella fattispecie delittuosa di peculato.

La Corte rileva poi come sul piano dogmatico ci si trovi al cospetto di una successione nel tempo di norme extrapenali in cui, per i fatti anteriori alla novella legislativa, è rimasto inalterato non solo il precetto (art. 314 c.p.), ma anche la qualifica soggettiva (art. 358 c.p.), la cui sussistenza è richiesta ai fini della punibilità a titolo di peculato, dovendosi di conseguenza escludere che la modifica del quadro di riferimento normativo di natura extra penale – che regola il versamento dell’imposta di soggiorno – abbia comportato un fenomeno di abolitio criminis.

Lockdown e post lockdown: i migliori alleati della violenza domestica e di genere?

Negli ultimi anni il Legislatore ha mostrato una maggiore sensibilità verso un fenomeno preoccupante e in crescita nel nostro paese: quello della violenza domestica e di genere.

Da ultimo, la Legge n. 69 del 19 luglio 2019 (c.d. “Codice Rosso”) ha introdotto nel nostro ordinamento una serie di novità di diritto penale sostanziale e processuale, con l’intento di garantire una maggiore tutela nei confronti delle vittime di violenza.

In breve (e in maniera acritica), tra le novità più rilevanti è stata prevista una vera e propria corsia preferenziale (non priva, tuttavia, di difficoltà applicative) per favorire un iter più veloce rispetto all’avvio dei procedimenti penali per talune fattispecie di reato [tra cui i maltrattamenti in famiglia, gli atti persecutori (c.d. stalking) e la violenza sessuale].

Sono stati introdotti nel Codice penale quattro nuovi reati: il delitto di costrizione o induzione al matrimonio o unione civile (art. 558 bis c.p.); il delitto di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (art. 583 quinquies c.p.); il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate [(art. 612 ter c.p.) c.d. “revenge porn”]; il delitto di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 387 bis c.p.).

È stato previsto inoltre un inasprimento del trattamento sanzionatorio per i reati di maltrattamenti in famiglia, di atti persecutori e di violenza sessuale (il cui termine per la proposizione della querela è stato aumentato da sei mesi a dodici mesi).

Ciò premesso, la condizione di “isolamento” nelle proprie abitazioni e la convivenza forzata imposta dalle misure adottate dal Governo in questi mesi, hanno certamente contribuito all’aumento dei casi di violenza domestica e di genere.

Il fatto che dai dati diffusi sembrerebbe non vi sia stato un significativo incremento delle denunce in relazione alla commissione di determinati reati, getta in realtà una luce oscura su un fenomeno preoccupante che ha trovato nel lockdown il suo migliore alleato.

È da ritenere infatti che le vittime di violenza – già assoggettate psicologicamente all’autore delle condotte di reato e sotto il suo costante controllo – abbiano avuto maggiori difficoltà a poter comunicare liberamente con l’esterno. A ciò va aggiunto un fisiologico aumento dei casi di violenza assistita da minori, a causa della loro costante presenza in casa per la chiusura delle scuole, per l’impossibilità di fare attività all’aperto e di praticare sport.

Non meno preoccupanti sono però in tal senso i possibili effetti del post lockdown o dei lockdown “parziali”, tenuto conto del notevole impatto economico e sociale che le misure di contenimento della diffusione del virus continueranno ad avere nei mesi a venire.

La perdita di migliaia di posti di lavoro e l’aumento della disoccupazione andranno a colpire maggiormente (come purtroppo sempre accade) i contesti sociali più svantaggiati, aumentando le tensioni all’interno dei nuclei familiari e favorendo così il nascere di episodi di violenza tra le mura domestiche.

In questo momento storico così difficile e complesso sul piano sociale, resta più che mai fondamentale portare a conoscenza della pubblica Autorità i fatti delittuosi, al fine di consentire la tempestiva attivazione delle tutele offerte dal nostro ordinamento in favore delle vittime di violenza.

In tema di reati urbanistici: la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all’art. 44 del D.P.R. n. 380/2001, non ammette termini o condizioni.

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Cassazione Penale, Sez. III, Sentenza n. 13084/2019.

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Con la presente pronuncia, la Corte di Cassazione – in accoglimento del ricorso proposto dal Pubblico Ministero avverso il provvedimento emesso dal Giudice dell’esecuzione, con il quale veniva revocato l’ordine di demolizione disposto dalla Procura – è tornata a delineare il perimetro entro il quale la sanatoria dell’abuso edilizio possa determinare l’estinzione del reato ai sensi dell’art. 44 del D.P.R. n. 380/2001. Si riportano di seguito alcuni passaggi della Sentenza in questione, integrati – per un maggiore approfondimento – dallo stralcio di una recente decisione della Corte costituzionale (Sentenza n. 101 del 27/02/2013) in tema di “doppia conformità” delle opere oggetto di sanatoria, nonché di altra recente pronuncia della Corte di Cassazione (Cass. pen., Sez. III, Sent., data ud. 28/04/2016, 27/05/2016, n. 22256) in tema di “unitarietà” dell’attività edificatoria.
  1. La sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all’art. 44 del D.P.R. n. 380/2001 non ammette termini o condizioni (Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014 Rv. 260973 – 01 Chisci), atteso che la ratio della norma è quella di dare rilievo alla piena conformità degli strumenti urbanistici dell’intera opera – così come realizzata – senza che siano consentiti accorgimenti per far rientrare la stessa nell’alveo della legittimità urbanistica.
  2. Sul punto, la Suprema Corte si era già pronunciata riguardo la illegittimità del rilascio di un permesso di costruire in sanatoria, condizionato all’esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell’alveo di conformità agli strumenti urbanistici, ritenendo che tale meccanismo non potesse determinare l’estinzione del reato edilizio di cui all’art. 44 del D.P.R. n. 380/2001. La predetta subordinazione si porrebbe difatti in contrasto con la funzione stessa della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina di riferimento in tema di reati urbanistici (Sez. 3, n. 51013 del 05/11/2015 Rv. 266034 – 01 Carratù).
  3. Con l’ulteriore precisazione che la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all’art. 44 del D.P.R. n. 380/2001, può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall’art. 36 D.P.R., essendo richiesta la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria. Deve pertanto escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che – solo successivamente – in applicazione della c.d. sanatoria giurisprudenziale (o impropria), siano divenute conformi alle norme edilizie, ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica. (cfr. Sez. 3, n. 7405 del 15/01/2015 Rv. 262422 – 01 Bonarota)
  4. A tale ultimo proposito, si riporta lo stralcio di una recente decisione della Corte costituzionale (Sentenza n. 101 del 27/02/2013), la quale – nel giudizio di legittimità costituzionale della L.R. Toscana 31 gennaio 2012, n. 4, art. 5, commi 1, 2 e 3 e artt. 6 e 7 (Modifiche alla L.R. 3 gennaio 2005, n. 1 “Norme per il governo del territorio” e della L.R. 16 ottobre 2009, n. 58 “Norme in materia di prevenzione e riduzione del rischio sismico”) – ha affermato che il principio della doppia conformità risulta finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità. La stessa giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sezione IV, 21 dicembre 2012, n. 6657) ha precisato infatti che la sanatoria in questione – in ciò distinguendosi da un vero e proprio condono – è stata deliberatamente circoscritta dal legislatore ai soli abusi formali, ossia dovuti alla carenza del titolo abilitativo. È palese pertanto la ratio ispiratrice della previsione della sanatoria in esame, anche di natura preventiva e deterrente, finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da escludere letture sostanzialiste della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi solo al momento della presentazione dell’istanza per l’accertamento di conformità.
  5. Conclude poi la Corte di Cassazione nella pronuncia n. 13084/2019, con il richiamo a quell’orientamento di legittimità secondo cui non è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria parziale, dovendo l’atto abilitativo postumo contemplare tutti gli interventi eseguiti nella loro integrità. (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 22256 del 28/04/2016 Rv. 267290 – 01 Rongo)
  6. E ciò in quanto il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso la suddivisione dell’attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla. L’opera deve essere infatti considerata unitariamente nel suo complesso senza che sia consentito scindere i suoi singoli componenti, a maggior ragione nel caso di interventi su preesistente opera abusiva. (Sez. 3, n. 16622 del 8/4/2015, Pmt in proc. Casciato, Rv. 263473; Sez. 3, n. 15442 del 26/11/2014 (dep. 2015), Prevosto e altri, Rv. 263339; Sez. 3, n. 5618 del 17/11/2011 (dep.2012), Forte, Rv. 252125; Sez. 3 n. 34585 del 22/4/2010, Tulipani, non massimata; Sez. 3, n. 20363 del 16/3/2010, Marrella, Rv. 247175; Sez. 3, n. 4048 del 6/11/2002 (dep. 2003), Tucci, Rv. 223365)

Sulla configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia in caso di cessazione della convivenza: Cassazione Penale, Sez. VI, Sentenza n. 25498/2017.

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Con la presente pronuncia, la Corte di Cassazione – richiamando una serie di orientamenti già cristallizzati dalla giurisprudenza di legittimità – delinea la struttura del reato di cui all’art. 572 c.p., nei contenuti novellati dalla L. 1 ottobre 2012, n. 172, chiarendo se possano ricondursi alla predetta fattispecie incriminatrice, rispetto a quella di cui all’art. 612 bis c.p., le condotte di maltrattamento maturate all’interno di una coppia di fatto per il tempo in cui i suoi componenti, genitori di un figlio naturale, abbiano cessato di convivere.

La principale modifica apportata all’art. 572 c.p., attiene proprio al riconoscimento della rilevanza della convivenza di fatto ai fini della configurabilità del reato.

A tal proposito, va evidenziato come – prima dell’entrata in vigore dei recenti interventi legislativi sul tema – il nostro sistema abbia fatto fatica ad adeguarsi normativamente in tal senso, avendo il legislatore dato scarso rilievo alla convivenza fuori dal matrimonio, lasciando il discutibile compito di sopperire a questa inevitabile (e anacronistica) discrasia tra diritto positivo e diritto vivente, alla giurisprudenza.

Sempre in tema di maltrattamenti in famiglia, ad esempio, la Sesta Sezione penale della Corte di Cassazione, con Sentenza n. 20647 del 22 maggio 2008, stabiliva che “ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia non assume alcun rilievo la circostanza che l’azione delittuosa sia commessa ai danni di persona convivente more uxorio. Infatti, il richiamo contenuto nell’articolo 572 c.p. alla “famiglia”, deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo, ricomprendendo questa nozione anche la “famiglia di fatto“.

Ripercorrendo i passaggi salienti dell’attuale pronuncia della Corte di Cassazione, viene rimarcato come la cessazione della convivenza di per sé non faccia venir meno i vincoli e gli obblighi tra i componenti del nucleo familiare, restando i primi sostenuti dall’istituto del matrimonio e dalle leggi di disciplina del derivato apporto di coniugio o ancora dal rapporto di filiazione (artt. 29 e 30 Cost.; artt. 143 e ss. cod. civ.; art. 315 e ss. cod. civ.).

Deve ritenersi infatti che nei rapporti tra coniugi separati in via giudiziale o consensuale permangono, sia pure in forma attenuata in ragione del sostanziale allentamento del vincolo matrimoniale, reciproci obblighi di rispetto, di assistenza morale e materiale e di collaborazione nell’interesse della famiglia (art. 143 cod. civ.), la cui violazione integra il reato di maltrattamenti in famiglia (Sez. 6, n. 7369 del 13/11/2012 (dep. 2013), M., Rv. 254026; Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013, I., Rv. 255628, in motivazione, p. 3; Sez. 2, n. 39331 del 05/07/2016, Spazzoli, Rv. 267915).

L’istituto della famiglia come società naturale nascente dal matrimonio (art. 29 Cost.) è fonte di obblighi che permangono, e la cui violazione integra il reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 cod. pen., anche quando manchi o venga meno la convivenza tra i coniugi, in ragione di reciproche relazioni di rispetto ed assistenza riconducibili a fonte legale, destinate a venir meno solo con il divorzio (Sez. 6, n. 50333 del 12/06/2013, L., Rv. 258644), che di quel legame segna lo scioglimento.

Diversamente, ove la relazione tra due persone si traduca in una famiglia di fatto o more uxorio, la cessazione della convivenza segna l’estinzione della prima nel sottolineato rilievo che per una siffatta ipotesi sia proprio la convivenza o coabitazione a manifestare il rapporto di solidarietà e protezione che lega due o più persone in un consorzio familiare (Sez. 6, n. 22915, cit.).

Nell’indicato principio, deve comunque restare ferma un’eccezione e cioè la presenza di elementi, ulteriori rispetto alla convivenza, che rivelino la prosecuzione del rapporto di reciproca assistenza nonostante la cessazione della coabitazione, nella premessa che il rapporto familiare di fatto, presupposto del reato di maltrattamenti in famiglia, non sia stato di estemporanea formazione e durata.

Ciò premesso, la Corte conclude con l’enunciazione del principio di diritto secondo cui la cessazione della convivenza non esclude, per ciò stesso, la configurabilità di condotte di maltrattamento tra i componenti della coppia, quando il rapporto personale di fatto sia stato il risultato di un progetto di vita fondato sulla reciproca solidarietà ed assistenza, la cui principale ricaduta non può che essere il derivato rapporto di filiazione.

Furto: limiti alla configurabilità dell’aggravante della esposizione dei beni alla pubblica fede in presenza di videosorveglianza.

Il furto at vero eos et accusamus et iusto odio dignissimos ducimus qui blanditiis praesentium voluptatum deleniti atque corrupti quos dolores et quas molestias excepturi sint occaecati cupiditate non provident, similique sunt in culpa qui officia deserunt mollitia animi, id est laborum et dolorum fuga. Et harum quidem rerum facilis est et expedita distinctio. Nam libero tempore, cum soluta nobis est eligendi optio cumque nihil impedit quo minus id quod maxime placeat facere possimus, omnis voluptas assumenda est, omnis dolor repellendus. Temporibus autem quibusdam et aut officiis debitis aut rerum necessitatibus saepe eveniet ut et voluptates repudiandae sint et molestiae non recusandae. Itaque earum rerum hic tenetur a sapiente delectus, ut aut reiciendis voluptatibus maiores alias consequatur aut perferendis doloribus asperiores repellat

Cassazione Penale, Sez. V, Sentenza n. 17407/2014.

Con la presente pronuncia, la suprema Corte è tornata a delineare i confini in ordine alla configurabilità della circostanza aggravante dell’esposizione dei bei beni alla pubblica fede in presenza di sistemi di videosorveglianza.

Il principio di diritto enunciato può essere così sintetizzato:

In tema di furto, l’aggravante della esposizione dei beni alla pubblica fede, di cui all’art. 625 co. 1, n. 7, c.p., non viene esclusa sic et simpliciter dalla presenza di un sistema di videosorveglianza, non costituendo quest’ultimo di per sé difesa idonea ad impedire la consumazione dell’illecito attraverso un immediato intervento ostativo.

Per la esclusione della aggravante de qua, sarà pertanto necessario l’esercizio di una diretta e continua custodia sui beni da parte del proprietario o di personale addetto alla vigilanza, non rilevando in tal senso la presenza di commessi addetti alla vendita – e quindi occupati anche a servire i clienti di un esercizio commerciale – la cui funzione di vigilanza è soltanto accessoria e non presenta quel carattere della permanenza, tale da consentire di ritenere che i beni oggetto della custodia non siano mai usciti dalla sfera di signoria e controllo da parte del titolare o dei soggetti da lui preposti al servizio di vigilanza e sicurezza.

 

Articolo pubblicato sulla rivista giuridica “Giurisprudenza Penale” in data 01.08.2014 (www.giurisprudenzapenale.com)

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