Autore: Luca Di Giorgi

Minaccia: configurabilità del reato indipendentemente dalla intimidazione (effettiva) del soggetto passivo.

La minaccia ut enim ad minima veniam, quis nostrum exercitationem ullam corporis suscipit laboriosam, nisi ut aliquid ex ea commodi consequatur?

At vero eos et accusamus et iusto odio dignissimos ducimus qui blanditiis praesentium voluptatum deleniti atque corrupti quos dolores et quas molestias excepturi sint occaecati cupiditate non provident, similique sunt in culpa qui officia deserunt mollitia animi, id est laborum et dolorum fuga. Et harum quidem rerum facilis est et expedita distinctio. Nam libero tempore, cum soluta nobis est eligendi optio cumque nihil impedit quo minus id quod maxime placeat facere possimus, omnis voluptas assumenda est, omnis dolor repellendus. Temporibus autem quibusdam et aut officiis debitis aut rerum necessitatibus saepe eveniet ut et voluptates repudiandae sint et molestiae non recusandae. Itaque earum rerum hic tenetur a sapiente delectus, ut aut reiciendis voluptatibus maiores alias consequatur aut perferendis doloribus asperiores repellat.

Cassazione Penale, Sez. V, Sentenza n. 19203/2014.

Il principio di diritto enunciato può essere così sintetizzato:

Il reato di minaccia, rientrante nel novero dei reati formali di pericolo, si consuma indipendentemente dall’effettiva intimidazione del soggetto passivo, rilevando in tal senso come unico parametro per la configurabilità del reato, l’idoneità del male minacciato ad incidere (anche solo in via potenziale) nella sfera psichica della persona offesa.

La gravità del male minacciato, dovrà essere attentamente valutata dal giudice di merito – valutazione che se adeguatamente motivata sarà incensurabile in sede di legittimità – tenendo conto del fatto nella sua interezza e della gravità della condotta tenuta dall’agente, accertando che il tenore delle eventuali espressioni verbali, unitamente al contesto fattuale nell’ambito del quale sono state proferite, abbiano potuto effettivamente ingenerare un timore o un turbamento nella persona offesa.

Va infine precisato che la circostanza secondo cui la persona offesa non abbia mutato – in seguito al male minacciato – le proprie abitudini di vita, è irrilevante ai fini della consumazione del reato, in quanto, qualora ciò si fosse verificato, l’agente sarebbe chiamato a rispondere di un titolo di reato differente da quello di minaccia, seppure aggravata.

 

Articolo pubblicato sulla rivista giuridica “Giurisprudenza Penale” in data 01.08.2014 (www.giurisprudenzapenale.com)

In tema di reati commessi in violazione del codice della strada.

Codice della strada ut enim ad minima veniam, quis nostrum exercitationem ullam corporis suscipit laboriosam, nisi ut aliquid ex ea commodi consequatur?

Cassazione Penale, Sez. IV, Sentenza n. 14616/2014.

Con la pronuncia n. 14616, depositata il 28 marzo 2014, la suprema Corte è tornata a pronunciarsi su una tematica piuttosto “popolare” riguardante i reati commessi in violazione della normativa speciale contenuta nel codice della strada.

Preliminarmente, la Corte ha messo in evidenza come, nei reati colposi, l’eventuale comportamento imprudente da parte della persona offesa dal reato, concomitante alla condotta penalmente rilevante tenuta dall’imputato, è idoneo ad escludere il nesso causale solamente quando risulti del tutto estraneo rispetto alla condotta tenuta da quest’ultimo, presentando il carattere dell’eccezionalità, tanto da poter attribuire la verificazione dell’evento alla sola condotta tenuta dalla vittima del reato.

Nello specifico, in tema di reati commessi in violazione della normativa speciale contenuta nel codice della strada, dal combinato disposto degli artt. 140 e 141 c.d.s. emerge chiaramente l’intento legislativo di aver voluto porre degli obblighi di diligenza – caratterizzati dal massimo grado di attenzione – in capo al conducente di un veicolo, la cui responsabilità non sarà esclusa in caso di comportamento concomitante ed imprudente da parte di soggetti terzi, purché rientrante nel limite della prevedibilità.

E ciò in ragione del fatto che, il principio dell’affidamento, nello specifico ambito della circolazione stradale, trova opportuno temperamento nell’opposto principio poc’anzi descritto.

Quanto al reato p. e p. dall’art. 189, co. 6, c.d.s, l’elemento soggettivo richiesto dalla norma è il dolo, anche nella forma del dolo eventuale, configurandosi il reato ogniqualvolta l’agente (rectius: l’utente della strada), al verificarsi di un incidente idoneo a recar danni alle persone, ometta di fermarsi per prestare soccorso, ovvero si rifiuti consapevolmente di accertare la sussistenza degli elementi in presenza dei quali il suo comportamento costituisce reato, accettandone perciò l’esistenza.

Nel reato de quo, l’elemento psicologico dovrà essere pertanto accertato in relazione al momento in cui l’utente della strada abbia posto in essere la condotta, e, quindi, rispetto alle circostanze concretamente rappresentate e rappresentabili dallo stesso al verificarsi del fatto, riservando soltanto ad un successivo momento il definitivo accertamento delle effettive conseguenze del sinistro.

È appena il caso di chiarire, inoltre, come il dovere di fermarsi sul posto dell’incidente debba essere inteso in senso ampio, e cioè per tutta la durata delle operazioni volte all’espletamento dei rilievi e degli accertamenti necessari al fine di ricostruire il fatto nella sua interezza.

 

Articolo pubblicato sulla rivista giuridica “Giurisprudenza Penale” in data 01.08.2014 (www.giurisprudenzapenale.com)

Estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni: analisi ragionata alla luce della sentenza n. 51433/13 della Cassazione.

Il fatto: Tizio, creditore nei confronti di Caio in ordine a spettanze derivanti da un rapporto di lavoro, cospargeva di benzina l’autovettura di quest’ultimo, facendogli altresì trovare poggiata in terra una tanica contenente del liquido infiammabile, al fine di costringerlo a pagargli le somme di cui era creditore, nonché a fargli sottoscrivere un verbale con i sindacati per la concessione della cassa integrazione. 
Per questo fatto, con provvedimento del Giudice per le Indagini Preliminari, veniva applicata nei confronti di Tizio la misura della custodia cautelare in carcere, avendo il giudice qualificato la condotta dello stesso come estorsiva ed avendola ritenuta così grave da giustificare l’applicazione di detta misura.
Tale provvedimento era oggetto di impugnazione da parte dell’imputato e il Tribunale del Riesame, pur confermando la qualificazione giuridica del fatto in estorsione, riteneva di dover applicare nei confronti di Tizio la misura cautelare meno afflittiva degli arresti domiciliari, ritenuto tra l’altro che la pretesa creditoria di Tizio era legittima e fondata, essendo comprovata da numerosi elementi ed in ogni caso riconosciuta dallo stesso Caio.
Avverso tale provvedimento, proponevano ricorso per Cassazione sia l’imputato a mezzo del proprio difensore sia il Pubblico Ministero.
L’unica doglianza dedotta dall’imputato riguardava l’asserita violazione dell’art. 649 c.p.p.: il Pubblico Ministero aveva emesso (inizialmente) decreto col quale disponeva il giudizio per il reato di minacce, successivamente riqualificato come estorsione, ma, ad avviso della difesa, se non sussistevano esigenze cautelari al tempo, trattandosi del medesimo fatto, non potevano sussistere nemmeno quando lo stesso Pubblico Ministero decideva di procedere per il delitto di estorsione.
Tale (unico) motivo di ricorso veniva rigettato dalla Corte, avendo questa ritenuto che l’asserita violazione dell’art. 649 c.p.p. era rimasta priva di qualunque riscontro probatorio e pertanto inesaminabile allo stato degli atti dal Collegio.

Il Pubblico Ministero insisteva invece per l’applicazione della custodia cautelare in carcere, ritenendo la condotta dell’imputato così grave da non poter essere “contenuta” dalla misura degli arresti domiciliari, sussistendo un concreto pericolo di reiterazione di reati della medesima specie, oltre alla possibilità di un eventuale inquinamento probatorio.

Il commento: La Corte ha ritenuto di dover disattendere anche i motivi del ricorso presentato dal Pubblico Ministero, spostando il campo d’indagine – ex art. 609 c.p.p. – non tanto sull’applicazione della misura cautelare più o meno afflittiva da applicarsi, quanto sulla eventuale riqualificazione giuridica del fatto, ritenendo che, se questo fosse stato qualificato come reato diverso e cioè come reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, il soggetto non avrebbe potuto vedersi applicata alcuna misura cautelare.
Pertanto la critica e l’analisi dei Giudici di legittimità si è focalizzata sulla confutazione di quel recente orientamento giurisprudenziale – evidentemente ritenuto correttamente applicabile al caso di specie prima dal Giudice per le Indagini Preliminari e poi dal Tribunale del Riesame – secondo cui “integra il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta minacciosa che esprime tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un proprio, preteso diritto, sicché la coartazione dell’altrui volontà deve ritenersi assuma ex se i caratteri dell’ingiustizia“. (ex plurimis v. Cass. 19230/13)
La questione giuridica affrontata dalla S.C. può pertanto essere così sintetizzata: “se e in che limiti la gravità della minaccia o della violenza, posta in essere da chi faccia valere una legittima pretesa deducibile davanti al giudice costituisca elemento del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni”.
Prima di analizzare l’iter argomentativo e le conclusioni alle quali è giunta la S.C. con la sentenza n. 51433/13, pare opportuno – sinteticamente e senza alcuna pretesa di esaustività – analizzare le fattispecie di reato esaminate nella pronuncia de qua. (per i rilievi che seguono ed un maggiore approfondimento, v. per tutti, in dottrina, Fiandaca – Musco, Diritto Penale – Parte Speciale, ult. ed.; Antolisei, Manuale di Diritto Penale – Parte Speciale ult. ed.)
Il reato di estorsione trova il proprio inquadramento codicistico nei delitti contro il patrimonio ed è disciplinato dall’art. 629 del c.p. che punisce chiunque, con violenza o minaccia, costringe qualcuno a fare od omettere qualcosa, procurando a sé o ad altri un ingiusto profitto con danno altrui.
Trattasi di un reato comune, non essendo richiesto dalla norma che il soggetto attivo rivesta una particolare qualifica soggettiva; qualora la condotta in oggetto sia posta in essere da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, sarà configurabile il delitto di concussione, sempre che vi sia stato il ricorso all’abuso della pubblica qualità.
La finalità perseguita dall’agente nel delitto in parola, è quella di creare – attraverso la violenza o la minaccia – uno stato di coazione psicologica nella vittima, tale da costringerla a porre in essere una condotta lesiva del proprio patrimonio per la soddisfazione di una pretestuosa ed illegittima richiesta, per la quale l’agente procurerà – a sé o ad altri – un ingiusto profitto.
A tale proposito va specificato che la compressione della libertà di autodeterminazione determinata dall’agente con la propria condotta criminosa, non potrà essere assoluta, nel senso che alla vittima dovrà essere lasciato un margine decisionale –  nonostante gli sia stata prospettata come conseguenza del suo rifiuto un male, nella forma della violenza o della minaccia – configurandosi, in caso contrario, la diversa fattispecie di reato prevista dal delitto di rapina (sempre che l’impossessamento abbia a riguardo un bene mobile).
È evidente pertanto la natura plurioffensiva del delitto di estorsione, mirando la norma a tutelare non solo il patrimonio, quanto anche la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo del reato.
L’estorsione, per le modalità di esecuzione del fatto criminoso che la caratterizzano, rientra nel novero di quei reati la cui realizzazione è subordinata ad una cooperazione artificiosa della vittima, elemento che, sotto questo profilo, accomuna tale fattispecie di reato alla truffa, distinguendosi da quest’ultima nel diverso modo di atteggiarsi della condotta lesiva e della sua incidenza nella sfera soggettiva della vittima.
Nella truffa infatti, la vittima viene tratta in inganno dall’agente il quale paventa (anche indirettamente) un male soltanto possibile ed eventuale e, pertanto, sulla base di un pericolo inesistente, questa si convince ad eseguire una determinata prestazione.
Nella estorsione, il male prospettato alla vittima è invece concreto e realizzabile dall’agente stesso o da altri, per cui la prestazione (illegittima) viene eseguita nel timore di subire le conseguenze malefiche prospettate.
Quanto all’elemento psicologico richiesto dalla norma per la configurazione del reato, è opinione largamente condivisa in dottrina che sia il dolo generico e non – come spesso si è affermato – specifico.
Tali osservazioni derivano dall’analisi della condotta richiesta dalla norma, secondo cui il procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, non rappresenta soltanto il fine perseguito dall’agente nel delinquere, ma, piuttosto, risulta essere l’elemento costitutivo della fattispecie oggettiva.
Il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose o con violenza o minaccia alle persone, è stato inserito dal legislatore nei delitti contro l’amministrazione della giustizia, rispettivamente agli artt. 392 e 393 c.p.
La tutela offerta dalle norme in esame è quella di punire chi, nella convinzione di esercitare un preteso diritto nei confronti di un soggetto terzo, decide di farsi giustizia da sé senza ricorrere all’Autorità giudiziaria.
La ratio legis della disposizione in parola, pertanto, consiste nel sanzionare la riprovevolezza della condotta e la sovversione all’ordine pubblico da parte del soggetto attivo del reato, il quale decide di “bypassare” quelli che sono gli strumenti di diritto offerti dal nostro ordinamento giuridico, per ricorrere alla coercizione personale ed arbitraria nei confronti di terzi per la realizzazione di un preteso diritto.
Gli elementi costitutivi del reato possono essere così individuati: a) l’esercizio da parte dell’agente di un preteso diritto da far valere nei confronti di un terzo (a tale proposito va precisato che potrebbe trattarsi anche di un diritto putativo e cioè inesistente, di cui tuttavia l’agente è convinto di essere titolare. Spetterà in questo caso al giudice valutare con prudenza tutti gli elementi del caso a sostegno della putatività del diritto preteso); b) l’opposizione da parte di un soggetto terzo rispetto a detta pretesa; c) la possibilità di ricorrere all’Autorità giudiziaria per la tutela del diritto preteso: questo è un elemento fondamentale nella fattispecie di reato in esame significando, in caso contrario, che la asserita pretesa avanzata dall’agente risulterebbe essere illegittima, trasformando la propria condotta violenta in un mero pretesto per ottenere qualcosa di non dovuto; d) il ricorso arbitrario alla forza –  nella forma della violenza o della minaccia –  diretta ad ottenere dal terzo quanto da questi pretesamente dovuto; e) il dolo, consistente nella volontà di realizzare la condotta violenta al fine di esercitare un preteso diritto.
Anche qui, come per il delitto di estorsione, la dottrina più attenta ha precisato che l’elemento psicologico richiesto dalla norma per la configurazione del reato, è il dolo generico e non specifico. Il fine di esercitare un preteso diritto, infatti, altro non è che l’intenzione di farsi ragione da sé e pertanto non essendo questo un quid posto al di fuori del fatto di reato, è assorbito nella condotta e nell’evento stesso, portando a dover ritenere che è richiesto il dolo nella sua forma generica.
E’ proprio attorno al punto sub d) che orbita l’analisi della S.C. nella sentenza in commento: quali limiti incontra la condotta violenta o minacciosa dell’agente – comune ad entrambe le fattispecie di reato – anche se sorretta da una pretesa legittima, tale da poter giustificare la configurazione del delitto di estorsione, per il solo fatto di essere caricata di una tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un proprio preteso diritto.
Sia la dottrina che la giurisprudenza di legittimità, hanno concordemente ritenuto che la linea di confine tra i due reati fosse individuabile non tanto nella materialità del fatto, che può essere identica, quanto nell’elemento volitivo (rectius: intenzionale) dell’agente.
Nell’estorsione l’agente agisce nella consapevolezza che quanto pretende dalla vittima non gli è dovuto, almeno in quella misura, e pertanto mira ad ottenere un ingiusto profitto con danno altrui.
Nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, l’agente è invece mosso dalla convinzione – anche errata – di essere titolare di un preteso diritto e, pertanto, con la condotta violenta o minacciosa pretende il soddisfacimento dello stesso coartando l’altrui volontà. (in giurisprudenza v. ex plurimis Cass. 17/07/1936, Raineri; Cass. 13/03/1953, Centofanti; Cass. 1596/1966 riv 103557; Cass. 409/1971 riv 120790; Cass. 7940/1986 riv 173481; Cass. 6445/1989 riv 171179; Cass. 12329/2010 riv 247228; Cass. 22935/2012 riv 2531992)
Nonostante questa pacifica impostazione, negli ultimi anni si è affermato che “nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la minaccia e la violenza non sono fini a se stesse, ma sono strettamente connesse alla condotta dell’agente, diretta a far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pongo come elementi accidentali, per cui non possono mai consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza”. (Cass. sent. n. 10336/2003)
Ed ancora “quando la minaccia si estrinseca in forme di tale forza intimidatoria e di tale sistematica pervicacia che vanno al di là di ogni ragionevole intento di far valere un diritto, allora la coartazione dell’altrui volontà è finalizzata a conseguire un profitto che assume ex se i caratteri dell’ingiustizia. In determinate circostanze e situazioni, pertanto, anche la minaccia dall’esercizio di un diritto, in sé non ingiusta, può diventare tale, se le modalità denotano soltanto una prava volontà ricattatoria, che fanno sfociare l’azione in mera condotta estorsiva”. (Cass. 47972/2004 riv 230709; Cas. 28/11/2007 n. 766; Cass. 27/06/2007 n. 35610, Della Rocca; Cass. 27/06/2007 n. 35613, Guarino; Cass. 15/02/2007 n. 14440, Mezzanzanica; Cass. 29/10/2008 n. 42317, Smaldore; Cass. 02/12/2009 n. 49564; Cass. 28539/2010 riv 247882; Cass. 41365/2010 riv 248736)
La S.C. dopo una interessante ricostruzione storica sulla disciplina del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni all’interno dei codici preunitari, al cui contenuto si è successivamente ispirato il codice Zanardelli (per l’analisi storica si rimanda alla lettura della sentenza in commento), giunge ad argomentare quanto di seguito esposto.
Sia lo sviluppo storico dell’istituto che l’inquadramento dogmatico, portano a ritenere che l’intento unico del legislatore sia stato quello di voler sanzionare il “farsi giustizia da sé” – con violenza o minaccia – senza ricorrere all’Autorità giudiziaria e non le modalità con le quali l’agente persegue il proprio scopo.
E’ la legge stessa ad offrire una tutela maggiore nel caso in cui la violenza o la minaccia alle persone sia commessa con armi (art. 393 co. 3 c.p.); è evidente pertanto la ratio legis di aver voluto conservare l’identità del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, anche nel caso in cui la condotta dell’agente sia particolarmente grave.
Sottolinea a tale proposito la Corte che, nel caso in cui l’agente ponga in essere una condotta che integri anche gli estremi di un altro reato – si pensi al caso in cui l’agente mosso dal fine di esercitare un preteso diritto ponga in essere un sequestro di persona per la realizzazione del suo intento – il reo risponderà secondo le norme sul concorso di reati.
La giurisprudenza, sul punto, non ha avuto dubbi nell’affermare che il reo dovesse essere ritenuto responsabile del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 393 c.p. in concorso con l’art. 605 c.p. e non del più grave reato di sequestro di persona a scopo di estorsione di cui all’art. 630 c.p. (v. ex plurimis Cass. 9731/2009 rv. 243020; Cass. 38438/2001 rv. 219977; Cass. 6677/1987 rv. 178535)
Ancora, la Corte, pone l’attenzione sul dato testuale dell’art. 581 co. 2 c.p. secondo cui il reato di percosse non trova applicazione quando “la legge considera la violenza come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un altro reato”.
E’ evidente pertanto che la semplice percossa risulta essere già assorbita dal reato di cui all’art 393 c.p., ma quando la carica di violenza trasmoda in un reato diverso – ad esempio lesioni o omicidio – l’agente risponderà del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in concorso con gli eventuali altri reati commessi nei confronti della persona offesa.
La tesi qui confutata, sostiene la Corte, si limita – senza spiegarne le ragioni – a ritenere che l’azione diventa estorsiva quando: a) è tale da non lasciare alla vittima alcuna possibilità di scelta; b) quando denota una prava volontà ricattatoria.
Quanto al punto sub a) –  come già specificato nella parte in cui si è brevemente analizzata la struttura del delitto di estorsione –  la giurisprudenza di legittimità, al fine di distinguere il reato di estorsione da quello di rapina, ha sostenuto che “l’elemento di discrimine tra i due reati, di estorsione e rapina, è costituito dall’area di libertà concessa alla persona offesa; sussiste il delitto di estorsione quando la volontà del soggetto passivo, per effetto della minaccia, non sia completamente esclusa, ma, residuando la possibilità di scelta fra l’accettante le richieste dell’agente o subire il male minacciato, la possibilità di autodeterminazione sia condizionata in maniera più o meno grave dal timore di subire il pregiudizio prospettato; se la minaccia, viceversa, si dovesse risolvere in un costringimento psichico assoluto, cioè nell’annullamento di qualsiasi possibilità di scelta, ed il risultato dell’agente fosse il conseguimento di un bene mobile, si configurerebbe infatti un vero e proprio impossessamento e, conseguentemente, il diverso reato di rapina”. (v. ex plurimis Cass. 47972/2004; Cass. 4308/1995 rv. 203773)
In ordine al punto sub b), va rilevato che la volontà ricattatoria dell’agente è senza dubbio un grave indizio del fine che quest’ultimo intende perseguire e, pertanto, spetterà al giudice verificare quale sia stata effettivamente l’intenzione dell’agente: se quella di ricavare dalla propria condotta un ingiusto profitto, o quella meno riprovevole di ottenere – seppure con l’uso arbitrario della forza – un qualcosa che gli spettava (anche putativamente) di diritto.
E’ per questo che il focus dell’analisi si dovrà spostare piuttosto sulla verificazione della sussistenza di due elementi: a) l’esistenza di un preteso diritto da parte dell’agente; b) la possibilità da parte dell’agente di ricorrere all’Autorità giudiziaria per la tutela del suddetto diritto.
L’assenza di uno di questi due elementi porterà infatti alla conseguenza di un inutile ulteriore approfondimento sull’elemento psicologico, dimostrando al contrario sic et simpliciter la prava volontà ricattatoria dell’agente, finalizzata al raggiungimento di un profitto ingiusto con danno altrui.
Il Collegio rileva a tale proposito che nelle sentenze richiamate, a ben vedere, l’agente per un motivo o per un altro non avrebbe mai potuto conseguire – attraverso il ricorso all’Autorità giudiziaria –  il risultato a cui mirava ponendo in essere la condotta violenta o minacciosa nei confronti della vittima, trattandosi di un diritto non azionabile.
Tirando le fila del discorso, la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sent. n. 51433/2013 ha affermato il principio secondo cui il delitto di estorsione non sarà mai configurabile quando l’agente con l’intento di esercitare un preteso e fondato diritto, pur potendo rivolgersi all’Autorità giudiziaria, decide di farsi giustizia da sé utilizzando nei confronti della vittima violenza e/o minaccia, non rilevando a tale proposito l’intensità e la gravità della violenza o della minaccia, potendo egli rispondere – in caso di lesione di ulteriori beni giuridici – del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in concorso con altri reati.
Per questi motivi la S.C., qualificando il fatto ai sensi dell’art. 693 c.p. e rigettando il ricorso del Pubblico Ministero, ha annullato senza rinvio l’ordinanza impugnata, nonché l’ordinanza di custodia cautelare disposta dal Giudice per le Indagini Preliminari, ordinando l’immediata scarcerazione dell’imputato se non detenuto per altra causa.

Articolo pubblicato sulla rivista giuridica “Giurisprudenza Penale” in data 13.02.2014 (www.giurisprudenzapenale.com)

Sull’obbligo giuridico di impedire l’evento da parte del proprietario di un immobile per le opere abusive di terzi.

Le opere abusive di terzi

Cassazione Penale, Sez. III, Sentenza n. 44202/2013.

Massima

In tema di reati edilizi, la responsabilità del proprietario non committente non può essere oggettivamente dedotta dal diritto sul bene né può essere configurata come responsabilità omissiva per difetto di vigilanza, attesa l’inapplicabilità dell’art. 40, secondo comma, cod. pen., ma dev’essere dedotta da indizi ulteriori rispetto all’interesse insito nel diritto di proprietà, idonei a sostenere la sua compartecipazione, anche morale, al reato. (Fattispecie in cui a Corte ha annullato la sentenza di condanna del proprietario non committente per non essere stati valutati gli elementi emersi dall’istruttoria, quale la stabile residenza dell’imputato in luogo distante da quello interessato dall’opera abusiva, l’assenza durante il periodo della costruzione di cui si erano occupati i genitori, l’indisponibilità di risorse economiche compatibili con l’attività edilizia).

Il commento

  1. Prima di esaminare nello specifico la sentenza in commento, sembra opportuno (ri)percorrere quello che è stato l’iter argomentativo della Terza Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, in ordine alla fattispecie di reato prevista e punita dall’art. 44 del D.P.R. n. 380/2001 e successive modificazioni (c.d. Testo Unico dell’Edilizia o TUE).
    Il reato in questione, è un reato contravvenzionale contenuto nella legislazione speciale, la cui finalità è quella di punire con un gradato trattamento sanzionatorio gli autori di illeciti relativi alla violazione delle norme in materia di edilizia pubblica.
    Il focus dell’argomento de quo, è interamente incentrato sulla circostanza secondo cui il (“reale”) autore dell’illecito penale, e dunque il committente dei lavori abusivi, è un soggetto terzo rispetto al formale proprietario dell’immobile.
    Dovrà pertanto verificarsi se il proprietario risponda (in concorso o a titolo esclusivo) del reato contestato per il solo fatto di rivestire la suddetta qualifica soggettiva rispetto al bene di cui si asserisce violata la norma di legge, oppure, se sarà necessario fornire la prova che il proprietario del suddetto bene, fosse effettivamente a conoscenza dell’illecito comportamento del terzo, concorrendo anche solo moralmente con quest’ultimo nell’esecuzione del reato.
    Si tratta in sostanza di stabilire se il proprietario di un bene immobile sia titolare altresì di una “posizione di garanzia” tale da giustificare l’operatività della clausola di “equivalenza” contenuta nell’art. 40 cpv. c.p. la quale, innestandosi in una norma di parte speciale, porrebbe in capo a determinati soggetti “garanti” l’obbligo giuridico di impedire la verificazione di un dato evento e che, nel caso di specie, si concreterebbe nella commissione da parte di terzi di reati edilizi aventi ad oggetto il bene immobile di cui l’asserito soggetto garante risulterebbe esserne il proprietario.
    In argomento, una parte minoritaria della dottrina sembra aver aderito all’impostazione c.d. “funzionale su base fattuale”, prescindendo (almeno in parte) dall’esistenza di un dato normativo che ponga in capo a determinati soggetti un obbligo giuridico di impedire l’evento penalmente rilevante, incentrando le proprie attenzioni sulla posizione soggettiva rivestita dall’agente ogniqualvolta si trovi nella posizione e nella condizione di poter esercitare una signoria (almeno potenziale) sul bene oggetto di tutela “privilegiata” da parte dell’ordinamento, avendo questi il potere/dovere di utilizzare tutti gli strumenti necessari e di cui è titolare al fine di impedire la verificazione di eventi lesivi nei confronti del bene giuridico oggetto di tutela.
    La giurisprudenza, dal canto suo, è ferma nell’aderire ad una impostazione c.d. “formale”, richiedendo la necessaria previsione di una posizione di garanzia “normativizzata” che trovi cioè la propria fonte nella legge penale o extrapenale o in una fonte negoziale tipica o atipica.
    E’ proprio la previsione normativa a legittimare l’operatività della clausola di equivalenza, impedendo la verificazione di ipotesi di mera responsabilità oggettiva e procedendo ad una imputazione della responsabilità penale per il solo fatto di possedere una determinata qualifica soggettiva.
    L’individuazione della fonte dell’obbligo di garanzia è quindi necessaria ai fini dell’individuazione del soggetto responsabile in seguito alla verificazione di un evento che, in presenza di una determinata situazione di garanzia, doveva essere da questi impedito.
  2. A tale proposito giova sottolineare come la figura del proprietario di un bene immobile non venga menzionata dall’art. 29 D.P.R. n. 380/2001 fra i soggetti titolari di una posizione di garanzia rispetto alla corretta edificazione dell’opera.
  3. Di conseguenza, ritenere il soggetto proprietario responsabile per l’omesso impedimento del reato altrui, presupporrebbe onerare lo stesso di un obbligo di vigilanza che, in difetto di un riscontro normativo, andrebbe a “sconfinare” facilmente in una ipotesi di responsabilità oggettiva, calpestando brutalmente il principio personalistico della responsabilità penale garantito dall’art. 27 della Costituzione.
    Il caso sottoposto all’esame della S.C. riguarda l’opera abusivamente realizzata da uno dei due coniugi, su un terreno di cui sono comproprietari.
    La circostanza secondo cui autore dell’illecito sia soltanto uno dei due coniugi, attrae la problematica attorno alla presunzione di responsabilità (anche) del coniuge non autore, in ragione della stretta comunanza di interessi con il coniuge autore dell’illecito penale, che lo rendono (presumibilmente) parte attiva di tutte quelle decisioni che abbiano rilevanza familiare.
    Per superare tale presunzione, l’interessato ha l’onere di provare l’insussistenza degli asseriti presupposti rappresentati dall’accusa e riferibili al caso concreto, pur non sussistendo per l’imputato la dimostrazione – al di là di ogni ragionevole dubbio – di non avere avuto nulla a che fare con l’abuso edilizio.
    Il giudice sarà chiamato pertanto ad accertare di volta in volta l’effettiva rilevanza dell’apporto fornito dal proprietario nella realizzazione dell’opera abusiva, dovendosene escludere la responsabilità penale quando questi sia rimasto estraneo all’abuso, in quanto il precetto normativo mira a punire il responsabile dell’illecito e non anche il proprietario (estraneo alla condotta criminosa), sul quale non ricade alcun obbligo giuridico di impedire l’evento.
  4. La S.C., nell’annullare con rinvio la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Napoli, ha sostanzialmente ripercorso quelli che erano già stati i più recenti arresti giurisprudenziali sull’argomento, giungendo a definire l’impostazione del ragionamento fatto dalla Corte territoriale “[…] chiaramente apodittica, nel senso che configura una sorta di responsabilità oggettiva del proprietario per le opere abusive, pur riconoscendo la sussistenza di elementi fattuali non insignificanti sulla lontananza abituale del proprietario, oltre che sulle sue risorse economiche. […]”
    La giurisprudenza più recente della S.C., si era già soffermata sugli effetti della qualità di proprietario in materia di reati edilizi, esigendo che, oltre alla sussistenza di detta qualità, occorressero ulteriori elementi – anche indiziari – che comprovassero la sua compartecipazione al fatto criminoso altrui. Sarà pertanto necessario che, l’apporto fornito dal proprietario del bene immobile, sia anche solo morale, non rilevando la mera connivenza dello stesso e dovendosi utilizzare, come parametri di valutazione, le regole generali sul concorso di persone nel reato, attesa l’inapplicabilità dell’art. 40 c.p., comma 2, in quanto non esiste una fonte formale da cui far derivare un obbligo giuridico di controllo sui beni, finalizzato ad impedire il reato. (cfr. Cass. sez. 3^, 30 maggio 2012 n. 25669; Cass. sez. 3^, 12 gennaio 2007 n. 8667; Cass. sez. 3^, 22 novembre 2007 n. 47083)
    La responsabilità del proprietario del manufatto nel quale l’abuso è stato effettuato, potrà pertanto “dedursi da indizi precisi e concordanti quali la qualità di coniuge del committente, la presentazione di istanze per la realizzazione di opere edilizie di portata di gran lunga minori di quelle realizzate, la presenza in loco all’atto dell’accertamento”. (Cass. sez. 3^, 13 luglio 2005 n. 32856)
    Le conclusioni alle quali è giunta la Terza Sezione Penale della S.C., con la sentenza n. 44202/2013, rispecchiano perfettamente l’aderenza a quanto richiesto dal principio di personalità della responsabilità penale, individuando in primo luogo la condotta omissiva e la sua rilevanza causale ex art. 40, secondo comma c.p. (responsabilità per fatto proprio), e, successivamente, l’elemento soggettivo richiesto dalla norma per l’individuazione del soggetto responsabile (responsabilità per fatto colpevole).
    La Suprema Corte pertanto, nell’accogliere integralmente il ricorso presentato dal difensore dell’imputato, ha sottolineato che, nel caso di specie, la residenza stabile in altro luogo, il viaggio di nozze per l’intera durata dei lavori abusivi e le difficoltà economiche, incompatibili con gli esborsi necessari per la realizzazione dell’opera illegittima, costituiscono elementi specifici contrari rispetto alla prospettazione d’accusa, essendo di per sé idonei ad escludere che il proprietario del manufatto abbia concorso nell’illecito penale contestato, anche solo sotto il profilo morale.
    Per queste ragioni, la S.C. ha ritenuto illogica la motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto sufficiente la qualità di proprietario, per affermare la sussistenza dell’interesse a adeguare l’appartamento e la consapevolezza della natura dei lavori che venivano eseguiti, in assenza di indizi gravi precisi e concordanti in ordine alla compartecipazione effettiva e non solo meramente potenziale del proprietario dell’immobile.

 

Articolo pubblicato sulla rivista giuridica “Giurisprudenza Penale” in data 21.01.2014 (www.giurisprudenzapenale.com)

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