Estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni: analisi ragionata alla luce della sentenza n. 51433/13 della Cassazione.

Il fatto: Tizio, creditore nei confronti di Caio in ordine a spettanze derivanti da un rapporto di lavoro, cospargeva di benzina l’autovettura di quest’ultimo, facendogli altresì trovare poggiata in terra una tanica contenente del liquido infiammabile, al fine di costringerlo a pagargli le somme di cui era creditore, nonché a fargli sottoscrivere un verbale con i sindacati per la concessione della cassa integrazione. 
Per questo fatto, con provvedimento del Giudice per le Indagini Preliminari, veniva applicata nei confronti di Tizio la misura della custodia cautelare in carcere, avendo il giudice qualificato la condotta dello stesso come estorsiva ed avendola ritenuta così grave da giustificare l’applicazione di detta misura.
Tale provvedimento era oggetto di impugnazione da parte dell’imputato e il Tribunale del Riesame, pur confermando la qualificazione giuridica del fatto in estorsione, riteneva di dover applicare nei confronti di Tizio la misura cautelare meno afflittiva degli arresti domiciliari, ritenuto tra l’altro che la pretesa creditoria di Tizio era legittima e fondata, essendo comprovata da numerosi elementi ed in ogni caso riconosciuta dallo stesso Caio.
Avverso tale provvedimento, proponevano ricorso per Cassazione sia l’imputato a mezzo del proprio difensore sia il Pubblico Ministero.
L’unica doglianza dedotta dall’imputato riguardava l’asserita violazione dell’art. 649 c.p.p.: il Pubblico Ministero aveva emesso (inizialmente) decreto col quale disponeva il giudizio per il reato di minacce, successivamente riqualificato come estorsione, ma, ad avviso della difesa, se non sussistevano esigenze cautelari al tempo, trattandosi del medesimo fatto, non potevano sussistere nemmeno quando lo stesso Pubblico Ministero decideva di procedere per il delitto di estorsione.
Tale (unico) motivo di ricorso veniva rigettato dalla Corte, avendo questa ritenuto che l’asserita violazione dell’art. 649 c.p.p. era rimasta priva di qualunque riscontro probatorio e pertanto inesaminabile allo stato degli atti dal Collegio.

Il Pubblico Ministero insisteva invece per l’applicazione della custodia cautelare in carcere, ritenendo la condotta dell’imputato così grave da non poter essere “contenuta” dalla misura degli arresti domiciliari, sussistendo un concreto pericolo di reiterazione di reati della medesima specie, oltre alla possibilità di un eventuale inquinamento probatorio.

Il commento: La Corte ha ritenuto di dover disattendere anche i motivi del ricorso presentato dal Pubblico Ministero, spostando il campo d’indagine – ex art. 609 c.p.p. – non tanto sull’applicazione della misura cautelare più o meno afflittiva da applicarsi, quanto sulla eventuale riqualificazione giuridica del fatto, ritenendo che, se questo fosse stato qualificato come reato diverso e cioè come reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, il soggetto non avrebbe potuto vedersi applicata alcuna misura cautelare.
Pertanto la critica e l’analisi dei Giudici di legittimità si è focalizzata sulla confutazione di quel recente orientamento giurisprudenziale – evidentemente ritenuto correttamente applicabile al caso di specie prima dal Giudice per le Indagini Preliminari e poi dal Tribunale del Riesame – secondo cui “integra il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta minacciosa che esprime tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un proprio, preteso diritto, sicché la coartazione dell’altrui volontà deve ritenersi assuma ex se i caratteri dell’ingiustizia“. (ex plurimis v. Cass. 19230/13)
La questione giuridica affrontata dalla S.C. può pertanto essere così sintetizzata: “se e in che limiti la gravità della minaccia o della violenza, posta in essere da chi faccia valere una legittima pretesa deducibile davanti al giudice costituisca elemento del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni”.
Prima di analizzare l’iter argomentativo e le conclusioni alle quali è giunta la S.C. con la sentenza n. 51433/13, pare opportuno – sinteticamente e senza alcuna pretesa di esaustività – analizzare le fattispecie di reato esaminate nella pronuncia de qua. (per i rilievi che seguono ed un maggiore approfondimento, v. per tutti, in dottrina, Fiandaca – Musco, Diritto Penale – Parte Speciale, ult. ed.; Antolisei, Manuale di Diritto Penale – Parte Speciale ult. ed.)
Il reato di estorsione trova il proprio inquadramento codicistico nei delitti contro il patrimonio ed è disciplinato dall’art. 629 del c.p. che punisce chiunque, con violenza o minaccia, costringe qualcuno a fare od omettere qualcosa, procurando a sé o ad altri un ingiusto profitto con danno altrui.
Trattasi di un reato comune, non essendo richiesto dalla norma che il soggetto attivo rivesta una particolare qualifica soggettiva; qualora la condotta in oggetto sia posta in essere da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, sarà configurabile il delitto di concussione, sempre che vi sia stato il ricorso all’abuso della pubblica qualità.
La finalità perseguita dall’agente nel delitto in parola, è quella di creare – attraverso la violenza o la minaccia – uno stato di coazione psicologica nella vittima, tale da costringerla a porre in essere una condotta lesiva del proprio patrimonio per la soddisfazione di una pretestuosa ed illegittima richiesta, per la quale l’agente procurerà – a sé o ad altri – un ingiusto profitto.
A tale proposito va specificato che la compressione della libertà di autodeterminazione determinata dall’agente con la propria condotta criminosa, non potrà essere assoluta, nel senso che alla vittima dovrà essere lasciato un margine decisionale –  nonostante gli sia stata prospettata come conseguenza del suo rifiuto un male, nella forma della violenza o della minaccia – configurandosi, in caso contrario, la diversa fattispecie di reato prevista dal delitto di rapina (sempre che l’impossessamento abbia a riguardo un bene mobile).
È evidente pertanto la natura plurioffensiva del delitto di estorsione, mirando la norma a tutelare non solo il patrimonio, quanto anche la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo del reato.
L’estorsione, per le modalità di esecuzione del fatto criminoso che la caratterizzano, rientra nel novero di quei reati la cui realizzazione è subordinata ad una cooperazione artificiosa della vittima, elemento che, sotto questo profilo, accomuna tale fattispecie di reato alla truffa, distinguendosi da quest’ultima nel diverso modo di atteggiarsi della condotta lesiva e della sua incidenza nella sfera soggettiva della vittima.
Nella truffa infatti, la vittima viene tratta in inganno dall’agente il quale paventa (anche indirettamente) un male soltanto possibile ed eventuale e, pertanto, sulla base di un pericolo inesistente, questa si convince ad eseguire una determinata prestazione.
Nella estorsione, il male prospettato alla vittima è invece concreto e realizzabile dall’agente stesso o da altri, per cui la prestazione (illegittima) viene eseguita nel timore di subire le conseguenze malefiche prospettate.
Quanto all’elemento psicologico richiesto dalla norma per la configurazione del reato, è opinione largamente condivisa in dottrina che sia il dolo generico e non – come spesso si è affermato – specifico.
Tali osservazioni derivano dall’analisi della condotta richiesta dalla norma, secondo cui il procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, non rappresenta soltanto il fine perseguito dall’agente nel delinquere, ma, piuttosto, risulta essere l’elemento costitutivo della fattispecie oggettiva.
Il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose o con violenza o minaccia alle persone, è stato inserito dal legislatore nei delitti contro l’amministrazione della giustizia, rispettivamente agli artt. 392 e 393 c.p.
La tutela offerta dalle norme in esame è quella di punire chi, nella convinzione di esercitare un preteso diritto nei confronti di un soggetto terzo, decide di farsi giustizia da sé senza ricorrere all’Autorità giudiziaria.
La ratio legis della disposizione in parola, pertanto, consiste nel sanzionare la riprovevolezza della condotta e la sovversione all’ordine pubblico da parte del soggetto attivo del reato, il quale decide di “bypassare” quelli che sono gli strumenti di diritto offerti dal nostro ordinamento giuridico, per ricorrere alla coercizione personale ed arbitraria nei confronti di terzi per la realizzazione di un preteso diritto.
Gli elementi costitutivi del reato possono essere così individuati: a) l’esercizio da parte dell’agente di un preteso diritto da far valere nei confronti di un terzo (a tale proposito va precisato che potrebbe trattarsi anche di un diritto putativo e cioè inesistente, di cui tuttavia l’agente è convinto di essere titolare. Spetterà in questo caso al giudice valutare con prudenza tutti gli elementi del caso a sostegno della putatività del diritto preteso); b) l’opposizione da parte di un soggetto terzo rispetto a detta pretesa; c) la possibilità di ricorrere all’Autorità giudiziaria per la tutela del diritto preteso: questo è un elemento fondamentale nella fattispecie di reato in esame significando, in caso contrario, che la asserita pretesa avanzata dall’agente risulterebbe essere illegittima, trasformando la propria condotta violenta in un mero pretesto per ottenere qualcosa di non dovuto; d) il ricorso arbitrario alla forza –  nella forma della violenza o della minaccia –  diretta ad ottenere dal terzo quanto da questi pretesamente dovuto; e) il dolo, consistente nella volontà di realizzare la condotta violenta al fine di esercitare un preteso diritto.
Anche qui, come per il delitto di estorsione, la dottrina più attenta ha precisato che l’elemento psicologico richiesto dalla norma per la configurazione del reato, è il dolo generico e non specifico. Il fine di esercitare un preteso diritto, infatti, altro non è che l’intenzione di farsi ragione da sé e pertanto non essendo questo un quid posto al di fuori del fatto di reato, è assorbito nella condotta e nell’evento stesso, portando a dover ritenere che è richiesto il dolo nella sua forma generica.
E’ proprio attorno al punto sub d) che orbita l’analisi della S.C. nella sentenza in commento: quali limiti incontra la condotta violenta o minacciosa dell’agente – comune ad entrambe le fattispecie di reato – anche se sorretta da una pretesa legittima, tale da poter giustificare la configurazione del delitto di estorsione, per il solo fatto di essere caricata di una tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un proprio preteso diritto.
Sia la dottrina che la giurisprudenza di legittimità, hanno concordemente ritenuto che la linea di confine tra i due reati fosse individuabile non tanto nella materialità del fatto, che può essere identica, quanto nell’elemento volitivo (rectius: intenzionale) dell’agente.
Nell’estorsione l’agente agisce nella consapevolezza che quanto pretende dalla vittima non gli è dovuto, almeno in quella misura, e pertanto mira ad ottenere un ingiusto profitto con danno altrui.
Nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, l’agente è invece mosso dalla convinzione – anche errata – di essere titolare di un preteso diritto e, pertanto, con la condotta violenta o minacciosa pretende il soddisfacimento dello stesso coartando l’altrui volontà. (in giurisprudenza v. ex plurimis Cass. 17/07/1936, Raineri; Cass. 13/03/1953, Centofanti; Cass. 1596/1966 riv 103557; Cass. 409/1971 riv 120790; Cass. 7940/1986 riv 173481; Cass. 6445/1989 riv 171179; Cass. 12329/2010 riv 247228; Cass. 22935/2012 riv 2531992)
Nonostante questa pacifica impostazione, negli ultimi anni si è affermato che “nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la minaccia e la violenza non sono fini a se stesse, ma sono strettamente connesse alla condotta dell’agente, diretta a far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pongo come elementi accidentali, per cui non possono mai consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza”. (Cass. sent. n. 10336/2003)
Ed ancora “quando la minaccia si estrinseca in forme di tale forza intimidatoria e di tale sistematica pervicacia che vanno al di là di ogni ragionevole intento di far valere un diritto, allora la coartazione dell’altrui volontà è finalizzata a conseguire un profitto che assume ex se i caratteri dell’ingiustizia. In determinate circostanze e situazioni, pertanto, anche la minaccia dall’esercizio di un diritto, in sé non ingiusta, può diventare tale, se le modalità denotano soltanto una prava volontà ricattatoria, che fanno sfociare l’azione in mera condotta estorsiva”. (Cass. 47972/2004 riv 230709; Cas. 28/11/2007 n. 766; Cass. 27/06/2007 n. 35610, Della Rocca; Cass. 27/06/2007 n. 35613, Guarino; Cass. 15/02/2007 n. 14440, Mezzanzanica; Cass. 29/10/2008 n. 42317, Smaldore; Cass. 02/12/2009 n. 49564; Cass. 28539/2010 riv 247882; Cass. 41365/2010 riv 248736)
La S.C. dopo una interessante ricostruzione storica sulla disciplina del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni all’interno dei codici preunitari, al cui contenuto si è successivamente ispirato il codice Zanardelli (per l’analisi storica si rimanda alla lettura della sentenza in commento), giunge ad argomentare quanto di seguito esposto.
Sia lo sviluppo storico dell’istituto che l’inquadramento dogmatico, portano a ritenere che l’intento unico del legislatore sia stato quello di voler sanzionare il “farsi giustizia da sé” – con violenza o minaccia – senza ricorrere all’Autorità giudiziaria e non le modalità con le quali l’agente persegue il proprio scopo.
E’ la legge stessa ad offrire una tutela maggiore nel caso in cui la violenza o la minaccia alle persone sia commessa con armi (art. 393 co. 3 c.p.); è evidente pertanto la ratio legis di aver voluto conservare l’identità del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, anche nel caso in cui la condotta dell’agente sia particolarmente grave.
Sottolinea a tale proposito la Corte che, nel caso in cui l’agente ponga in essere una condotta che integri anche gli estremi di un altro reato – si pensi al caso in cui l’agente mosso dal fine di esercitare un preteso diritto ponga in essere un sequestro di persona per la realizzazione del suo intento – il reo risponderà secondo le norme sul concorso di reati.
La giurisprudenza, sul punto, non ha avuto dubbi nell’affermare che il reo dovesse essere ritenuto responsabile del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 393 c.p. in concorso con l’art. 605 c.p. e non del più grave reato di sequestro di persona a scopo di estorsione di cui all’art. 630 c.p. (v. ex plurimis Cass. 9731/2009 rv. 243020; Cass. 38438/2001 rv. 219977; Cass. 6677/1987 rv. 178535)
Ancora, la Corte, pone l’attenzione sul dato testuale dell’art. 581 co. 2 c.p. secondo cui il reato di percosse non trova applicazione quando “la legge considera la violenza come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un altro reato”.
E’ evidente pertanto che la semplice percossa risulta essere già assorbita dal reato di cui all’art 393 c.p., ma quando la carica di violenza trasmoda in un reato diverso – ad esempio lesioni o omicidio – l’agente risponderà del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in concorso con gli eventuali altri reati commessi nei confronti della persona offesa.
La tesi qui confutata, sostiene la Corte, si limita – senza spiegarne le ragioni – a ritenere che l’azione diventa estorsiva quando: a) è tale da non lasciare alla vittima alcuna possibilità di scelta; b) quando denota una prava volontà ricattatoria.
Quanto al punto sub a) –  come già specificato nella parte in cui si è brevemente analizzata la struttura del delitto di estorsione –  la giurisprudenza di legittimità, al fine di distinguere il reato di estorsione da quello di rapina, ha sostenuto che “l’elemento di discrimine tra i due reati, di estorsione e rapina, è costituito dall’area di libertà concessa alla persona offesa; sussiste il delitto di estorsione quando la volontà del soggetto passivo, per effetto della minaccia, non sia completamente esclusa, ma, residuando la possibilità di scelta fra l’accettante le richieste dell’agente o subire il male minacciato, la possibilità di autodeterminazione sia condizionata in maniera più o meno grave dal timore di subire il pregiudizio prospettato; se la minaccia, viceversa, si dovesse risolvere in un costringimento psichico assoluto, cioè nell’annullamento di qualsiasi possibilità di scelta, ed il risultato dell’agente fosse il conseguimento di un bene mobile, si configurerebbe infatti un vero e proprio impossessamento e, conseguentemente, il diverso reato di rapina”. (v. ex plurimis Cass. 47972/2004; Cass. 4308/1995 rv. 203773)
In ordine al punto sub b), va rilevato che la volontà ricattatoria dell’agente è senza dubbio un grave indizio del fine che quest’ultimo intende perseguire e, pertanto, spetterà al giudice verificare quale sia stata effettivamente l’intenzione dell’agente: se quella di ricavare dalla propria condotta un ingiusto profitto, o quella meno riprovevole di ottenere – seppure con l’uso arbitrario della forza – un qualcosa che gli spettava (anche putativamente) di diritto.
E’ per questo che il focus dell’analisi si dovrà spostare piuttosto sulla verificazione della sussistenza di due elementi: a) l’esistenza di un preteso diritto da parte dell’agente; b) la possibilità da parte dell’agente di ricorrere all’Autorità giudiziaria per la tutela del suddetto diritto.
L’assenza di uno di questi due elementi porterà infatti alla conseguenza di un inutile ulteriore approfondimento sull’elemento psicologico, dimostrando al contrario sic et simpliciter la prava volontà ricattatoria dell’agente, finalizzata al raggiungimento di un profitto ingiusto con danno altrui.
Il Collegio rileva a tale proposito che nelle sentenze richiamate, a ben vedere, l’agente per un motivo o per un altro non avrebbe mai potuto conseguire – attraverso il ricorso all’Autorità giudiziaria –  il risultato a cui mirava ponendo in essere la condotta violenta o minacciosa nei confronti della vittima, trattandosi di un diritto non azionabile.
Tirando le fila del discorso, la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sent. n. 51433/2013 ha affermato il principio secondo cui il delitto di estorsione non sarà mai configurabile quando l’agente con l’intento di esercitare un preteso e fondato diritto, pur potendo rivolgersi all’Autorità giudiziaria, decide di farsi giustizia da sé utilizzando nei confronti della vittima violenza e/o minaccia, non rilevando a tale proposito l’intensità e la gravità della violenza o della minaccia, potendo egli rispondere – in caso di lesione di ulteriori beni giuridici – del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in concorso con altri reati.
Per questi motivi la S.C., qualificando il fatto ai sensi dell’art. 693 c.p. e rigettando il ricorso del Pubblico Ministero, ha annullato senza rinvio l’ordinanza impugnata, nonché l’ordinanza di custodia cautelare disposta dal Giudice per le Indagini Preliminari, ordinando l’immediata scarcerazione dell’imputato se non detenuto per altra causa.

Articolo pubblicato sulla rivista giuridica “Giurisprudenza Penale” in data 13.02.2014 (www.giurisprudenzapenale.com)

Estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni: analisi ragionata alla luce della sentenza n. 51433/13 della Cassazione.
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