G.I.P. presso il Tribunale di Reggio Emilia, Sentenza n. 54 del 27.01.2021.
Con la presente sentenza, il Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Reggio Emilia – decidendo sulla richiesta di emissione del decreto penale di condanna avanzata dal Pubblico Ministero – ha prosciolto ex art. 129 c.p.p., perché il fatto non costituisce reato, i due imputati chiamati a rispondere del delitto di cui all’art. 483 c.p. (falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico) «…perché, compilando atto formale di autocertificazione per dare contezza del loro essere al di fuori dell’abitazione in contrasto con l’obbligo imposto dal DCPM 08.03.2020, attestavano falsamente ai Carabinieri di Correggio: TIZIA di essere andata a sottoporsi ad esami clinici; CAIO di averla accompagnata…», avendo il Giudice disapplicato – ai sensi dell’art. 5 della Legge n. 2248/1865 all. E – il DPCM 8 marzo 2020 in quanto ritenuto costituzionalmente illegittimo.
Secondo il Giudice, il DPCM del 8.3.2020 (così come i provvedimenti successivi emanati dal Capo del Governo) evocato nell’autocertificazione sottoscritta da ciascun imputato, è «indiscutibilmente» illegittimo laddove prevede che “1. Allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus COVID-19 le misure di cui all’art. 1 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 8 marzo 2020 sono estese all’intero territorio nazionale“, e del rinviato DPCM dei 8.3.2020, ove stabilisce che “Allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus COVID-19 nella regione Lombardia e nelle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell’Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso e Venezia, sono adottate le seguenti misure: a) evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo, nonché all’interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute.
La previsione di un divieto generale e assoluto di spostamento al di fuori della propria abitazione, con limitate e specifiche eccezioni, configura di fatto un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare, obbligo che nel nostro ordinamento può essere imposto soltanto da un provvedimento del Giudice o in via cautelare (applicazione di misure cautelari) o definitiva (sentenza di condanna a pena detentiva), nel rispetto dei limiti previsti dalla legge e garantendo il diritto di difesa.
A tal proposito, si è evidenziato come la Corte costituzionale abbia ritenuto configurante una restrizione della libertà personale in situazioni ben più lievi dell’obbligo di permanenza domiciliare: ad esempio in tema di “prelievo ematico” (Sentenza n. 238 del 1996) ovvero di obbligo di presentazione presso l’Autorità di PG in concomitanza con lo svolgimento delle manifestazioni sportive, in caso di applicazione del DASPO, tanto da richiedere una convalida del Giudice in termini ristrettissimi. Parimenti, per la disciplina sul trattamento sanitario obbligatorio (TSO), poiché impattante sulla libertà personale, deve essere garantito un controllo giurisdizionale tempestivo in ordine ai presupposti applicativi tassativamente previsti dalla legge.
L’art. 13 Cost. stabilisce infatti che le misure restrittive della libertà personale possono essere adottate unicamente con «…atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge».
Sulla scorta di tale principio costituzionale si ricava in primo luogo che un DPCM non possa disporre alcuna limitazione della libertà personale, trattandosi di fonte regolamentare di rango secondario e non già di un atto normativo avente forza di legge; in secondo luogo, neppure una legge (o un atto normativo avente forza di legge) potrebbe prevedere in via generale e astratta un obbligo di permanenza domiciliare nei confronti di una pluralità indeterminata di cittadini, atteso che l’art. 13 Cost. postula una doppia riserva, di legge e di giurisdizione, implicando necessariamente l’emissione di un provvedimento individuale (diretto quindi nei confronti di uno specifico soggetto) da parte del Giudice, nel rispetto dei limiti imposti dalla legge.
Il Giudice chiarisce infine come non possa essere condivisa l’impostazione di chi sostiene la conformità al dettato costituzionale dell’obbligo di permanenza domiciliare in ragione del fatto che il DPCM avrebbe previsto legittime limitazioni della libertà di circolazione ex art. 16 Cost. e non della libertà personale. Secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, la libertà di circolazione non può essere confusa con la libertà personale: i limiti della libertà di circolazione attengono a luoghi specifici, il cui accesso può essere precluso, perché ad esempio pericolosi; quando invece il divieto di spostamento non riguarda i luoghi, ma le persone, allora la limitazione si configura come una vera e propria limitazione della libertà personale.
Sulla scorta di tali argomentazioni è stata pertanto dichiarata la illegittimità del DPCM indicato per violazione dell’art. 13 Cost., con conseguente dovere del Giudice ordinario di disapplicarlo ai sensi dell’art. 5 della Legge n. 2248/1865 all. E.
Dalla disapplicazione del provvedimento normativo deriva l’irrilevanza penale della condotta di falso ideologico commessa dal privato nell’autocertificazione (quest’ultima incompatibile con lo stato di diritto del nostro Paese e dunque illegittima), condotta per l’appunto integrativa di un falso inutile (rectius: innocuo), incidendo la falsità su un documento irrilevante o comunque non influente ai fini della decisione da emettere in relazione alla situazione giuridica che viene in questione.